Scritto da Lucia Roggero in data 15/12/2005
Per la prima volta, dopo che mi è stata assegnata la borsa di studio dall’Associazione Culturale “Ichiro Nishikawa”, ho la possibilità di vivere per due mesi in Giappone.
Novembre 1999
Sono a Tokyo ormai da due settimane e non mi sono ancora totalmente abituata alla vita frenetica che muove questa città. Le mie giornate sono scandite da un ritmo regolare ed impegnativo: la mattina mi reco nelle biblioteche, almeno nelle poche accessibili, per consultare materiale utile alla compilazione della mia tesi ed il pomeriggio frequento un corso intensivo di lingua giapponese. Pur essendo una società difficile penso di aver trovato un mio ruolo al suo interno e di essere ormai parte integrante del gruppo dei sarariman(1) che ogni mattina si alzano, si recano al lavoro e rientrano con l’ultimo treno.
15 Novembre
Contatto telefonicamente il professor Yomota, un collega ed amico del professor Tomasi, per chiedergli consigli e suggerimenti per la mia ricerca. L’uomo mi da appuntamento per questo sabato presso l’Università in cui insegna: la Meiji Gakuin Daigaku.
27 Novembre
Yomota è un uomo sui quarant’anni simpatico ed alquanto stravagante. Parla un italiano corretto, scopro che è vissuto un anno a Bologna. Il suo minuscolo studio è strapieno di videocassette, libri e riviste di cinema. La mia visita gli riporta alla memoria il clima italiano e l’atmosfera inebriante de La Dolce Vita. Scoperto il tema della mia tesi confessa di essere anche lui in procinto di scrivere un libro su Hara Setsuko e mi mostra un prezioso kimono avuto in prestito dall’attrice e delle foto della donna in visita in Russia. Decide di accompagnarmi a Kamakura sulla tomba di Ozu. Yomota mi raccomanda di essere puntuale (ecco la conferma del fatto che ha veramente vissuto in Italia).
2 Dicembre
È una giornata piovosa: forse l’atmosfera ideale per visitare Kamakura. L’appuntamento con Yomota è alla stazione di Shinagawa alle ore 10.00. Nonostante le sue raccomandazioni è lui ad essere in ritardo. In compenso si avvicina una ragazza che mi riconosce poiché sono l’unica occidentale: è una sua amica ed anche lei verrà a Kamakura con noi.
Durante il viaggio Yomota traccia abilmente uno schizzo del tragitto che porta da Tokyo a Kita Kamakura. Mi spiega che Ozu percorreva questo tratto in treno tutti i giorni per recarsi agli Studi di Ofuna e questo è il paesaggio che ritroviamo nei suoi film. Ripenso a Tarda Primavera e alle immagini del viaggio in treno che padre (Chishu Ryu) e figlia (Hara Setsuko) compiono per recarsi a Tokyo. Il tempo sembra non essere trascorso.
Anche la stazione di Kita Kamakura è ancora identica a quella mostrata da Wenders in Tokyo-ga. Mi sembra di ripercorrere idealmente le tappe che il regista tedesco ha tracciato, ricordo la semplicità di Ryu e la commozione di Atsuta.
A lato dell’unico binario un omino in divisa in una piccola baracca di legno raccoglie i soldi del biglietto. La sbarra del passaggio a livello è abbassata: ripenso ai mocciosi di Sono nato ma… Che tutto non sia cambiato per rendere omaggio alla persona che con tanta precisione ha descritto tali atmosfere e sentimenti?
Ci fa da guida la moglie di un amico di Yomota, una signora in kimono che arriva trafelata camminando a fatica con i geta(2). La tomba di Ozu si trova all’interno dell’Engaku-ji, uno dei cinque templi principali della setta zen Rinzai di Kamakura e risale al 1282. Percorriamo viottoli e sentieri sotto la pioggia per arrivarci e scopro che anche per Yomota è la prima volta.
Raggiungiamo il cimitero, tipicamente giapponese, con piccole costruzioni simili a tempietti disseminati ovunque. La tomba di Ozu si distingue però da queste ultime perché particolare nella sua struttura. Si tratta di una lastra di marmo nero con un unico segno inciso: mu, il vuoto. Un’inscrizione anonima ed allo stesso tempo così carica di significato. Accanto alla lastra piccole bottiglie di saké e whisky, omaggio di amici o ammiratori che bene conoscevano la passione del regista e fiori rovinati dall’acqua. Dietro la tomba, su lunghi pali di legno sono incise poesie e frasi di parenti ed amici.
Parliamo di Ozu, della sua vita, del rapporto con la madre, del mu. Dopo tre quarti d’ora decidiamo di lasciare il cimitero ed incamminarci verso Kamakura. Mi dispiace lasciare un posto che tutto ad un tratto sento familiare e capisco l’importanza della mia visita in un luogo che considero sacro.
Più tardi, ci ritroviamo tutti e quattro in un tipico saloncino in stile giapponese simile a quello ricorrente nei film di Ozu dove si incontrano abitualmente Ryu Chishu, Kita Ryuji, Nakamura Nobuo, Saburi Shin. Sono seduta al posto d’onore, mentre Yomota, in teoria il più importante tra noi, si accomoda di fianco alla porta. Mi sforzo di rimanere sulle ginocchia in una posizione corretta ma le gambe mi fanno male. Mangiamo riso e tsukemono (verdure sottaceto), beviamo saké e l’atmosfera diventa intima ed accogliente. Parliamo del cinema di Ozu, delle emozioni che abbiamo provato alla visione di Viaggio a Tokyo, dei giovani registi contemporanei e delle mie aspettative per il futuro.
Sola, sul treno di ritorno ripenso alla città di Tokyo, alla gente che vi vive, ai cambiamenti accaduti e a cosa effettivamente resta delle storie di vita semplice descritte nei film del regista. Ho conosciuto la società e le famiglie orientali ancor prima di recarmi in Giappone proprio attraverso i suoi film e ora ritrovo una società cambiata, privata degli stessi sentimenti e delle buone intenzioni dei genitori che Ozu aveva scelto di rappresentare nei suoi film. La dissoluzione e l’ineluttabilità del cambiamento così predicati nelle parole del vecchio Shukichi in Viaggio a Tokyo hanno finito per prendere il sopravvento. Ci si trova allora tra tutta quelle gente ma ancora un po’ più soli.
Shikata ga nai… non c’è niente da fare…
(1) In giapponese sarariman significa letteralmente “uomo salario” ed il termine è usato per indicare l’impiegato di ceto medio.
(2) Sandali di legno infradito, usati spesso con lo yukata, indossati senza tabi che producono un rumore molto caratteristico. Quelli alti detti okobo o pokkuri, laccati neri e molto alti, vengono indossati dalle maiko (apprendiste geisha); i geta da donne hanno una forma più arrotondata, quelli da uomo sono squadrati.